Flaminio Gualdoni

 

Ambiguo. Titolo programmatico quanto mai altri, quello d’un’opera del 2000 indica con sintesi perfetta la natura del lavoro pittorico di Giorgio Tonti.

Perché, anzitutto, si tratta di un lavoro nomade e in limine, quasi maniacalmente attento a non impaniarsi nelle rules and regulations del sistema artistico, orgoglioso e forte di una selvatichezza che significa, per l’artista, facoltà di non doversi confrontare mai con il dover essere dei gusti decennali, con l’accattonaggio mondano della cultura che si desidera ufficiale. Nomade, anche perché cresciuto su un senso di libertà non retoricamente esercitato, attuato scelta dopo scelta come confronto limpido, incoatto, con quel sentirsi artista che, da sempre, accompagna Tonti.

Tonti è stato per anni grafico e pubblicitario affermato; persona, dunque, ben consapevole di quanto l’immagine contenga e sprigioni la propria "distinzione", per dirla alla Bourdieu, e di quanto poco le occorra, soprattutto, per piacere. E proprio quest’animo professionale gli ha consentito di individuare e preservare lucidamente la dimensione del creatore, dell’avventuriero felice dell’immagine autre, separata da quella del creativo.

André Villers, grande fotografo sodale di Picasso, ama raccontare il consiglio prezioso che gli diede Jean Cocteau: "Ciò che ti rimproverano coltivalo, perché quello sei tu". Ecco, anche nel caso di Tonti si può leggere tutto il corso pittorico non come estensione ed espansione del suo sapere grafico, bensì come il wild side, l’improprio, lo scorretto, l’emergenza formale e stilistica inflessibile, rispetto alla norma preconfetta: tutto ciò che ti rimproverano, appunto, forse è la tua arte.

E’ così sin dagli inizi, a ben vedere. Da quando, per intenderci, Franco Passoni riconosceva nei suoi dipinti – correva l’anno 1966 – "larghe campiture, ricche di vibrazioni luminose e maturate insieme alle ‘forme’, apparentemente semplici", ma soprattutto l’aspirazione a "staccarsi da un rigorismo puramente teorico, per accostarsi più spontaneamente ad una sintesi di valori della pittura che siano un incontro tra la realtà esteriore e la realtà emotiva interiore".

Dunque Tonti, mossi i primi passi da un orizzonte che a quelle date aveva ancora senso indicare come figurativo, agisce per via di sintesi e decantazione, quindi effettivamente astraendo, sino a giungere a una sorta di primarizzazione dell’immagine che prende a valere per se stessa, nutrita di pattern e insieme di umori simbolici ed evocativi, dimora e corpo di un colore trepido, sedimentato come coagulo dello stream affettivo.

E’, questa, una scelta stilistica, certo. Ma l’artista vi fa confluire da subito altre riflessioni, anche. All’atto stesso in cui le sue immagini nascono, e in cui egli prende a guardarle sulle pareti delle gallerie dove tiene le prime personali, non può fare a meno di riflettere sulle "regole d’ingaggio" dell’artistico nei confronti del pubblico. Da comunicatore qual è, Tonti non può non riconoscere il potere carismatico della galleria e della cornice, la liturgia dell’olio su tela, la mistica implicita e catafratta di quella porzione sacrata di spazio; non può, d’altronde, non avvertire quanto la mitologia del prezzo faccia parte dell’habitus dell’opera, snaturandone profondamente, lo si voglia o no, la sostanza. Certo, sono le medesime riflessioni che con ben altra eco si vanno svolgendo oltre Atlantico da parte di Warhol e compagni, e in Europa da parte dei Vasarely, Munari, eccetera.

L’approccio di Tonti è, tuttavia, intimamente differente. Egli non ha retaggi duchampiani da esercitare, e neppure proclami di morte dell’arte nell’estetizzazione sociale, secondo l’allora diffusa falsata interpretazione hegeliana. Egli si propone, assai semplicemente, di dar luogo a un prodotto artistico forte della propria idea al di là delle auraticità mondane, una sorta di coagulo concettuale che possa essere posto di fronte allo spettatore senza alibi di lettura, per ciò che è: una idea fatta visione, e basta. Egli mira, dunque, a salvaguardare la sostanza dell’opera, dell’idea stessa di opera, a scapito delle formalizzazioni apparenti.

E’ da tutto ciò che nasce il progetto di arte seriale Studio Zero, attivo a Milano per molti anni, caso davvero singolare nel mondo non sempre decifrabile dell’arte moltiplicata. Al di là delle implicazioni operative, che sarebbe di gran momento analizzare in una riflessione finalmente storicizzata su quelle vicende, importa in questa sede osservare quanto ciò influisca sul corso espressivo del nostro. Dopo una fase in cui l’immagine si prosciuga in un gioco compositivo di shapes biomorfe, del quale il teatrino metafisico polimaterico di Silenzio è l’esempio più alto, in lavori come Venezia, e soprattutto Paesaggio, Tonti ritrova il gusto per un ritorno saporoso, libero, sensuale anche, all’organico, fatto d’un tramarsi grafico teso e sintetico, nel quale avverti precisa la riflessione sulla durata, sulla temporalità interna del fare l’opera, e su quella specifica dell’opera stessa.

Scrive Tonti nel 1976 presentando la propria mostra intitolata sintomaticamente Figurazione, dello "studio su una figurazione ottenuta per segni rapidi come una scrittura, che permettano, ad esempio, di disegnare l’uomo e contemporaneamente descriverne i caratteri salienti, le tensioni interiori. Lo stesso vale per le cose, gli oggetti, radiografati più che rappresentati, ‘scritti’ più che disegnati".

Una grafia sintetica, intensiva non corsiva, è l’elemento decisivo della scelta di Tonti, il quale intravede in ciò anche la possibilità di ricostituire quanto meno per tracce e sentori una narratività possibile, un clima di racconto. Torna alla mente, a questo proposito, la celebre frase di Paul Valéry a proposito del "dare la sensazione senza la noia di doverla trasmettere".

Sono questi d’altronde gli elementi che ritroviamo, dopo una ulteriore lunga stagione di assenza espositiva, nelle serie forti di dipinti che nascono dagli anni Novanta.

Sono, dapprima, articolazioni sempre più complesse e turgide di grafie, che da sintetiche si fanno costitutive, come nervature fisiologiche d’un corporeo ora risentito, cercato nelle sue sostanze più intime. Tonti riflette ora sul punto d’emergenza dell’identità della figura, adottando come punti di triangolazione Van Gogh (Una stanza per Van Gogh) e per altri versi Bacon, in opere come Ritratto di personalità; è il Bacon che racconta: "quello che intendo fare è ricollocare il soggetto nel sistema nervoso, renderlo con la stessa intensità con cui lo si incontra nella vita".

Tale approccio, nel quale l’artista ritrova le frequenze di un colore acido, disagiato, virato a sottrarre compiacimenti sensibilistici in favore dell’auscultazione oscura della vitalità segreta della figura, conduce, in lavori come Grande casa, a ritrovare il punto di definitiva autonomia dell’immagine pittorica, la cui referenzialità è matter del fare, non garanzia estetica né, tanto meno, di qualità espressiva.

"L’artista interroga sé e il mondo con un’ansia di pulizia, d’etica rigorosa: vuol partire da forme primarie, da segni primari, da colori primari. Ogni tentazione estetica, ogni raffinatezza esecutiva è sentita come disturbante, come tentativo di barare al gioco esistenziale". Così Silvia Venuti, nel 2002, a dire del corso ultimo di Tonti, il momento del passaggio da questo figurare proliferante verso sintesi ulteriori. Sono figurazioni sintetizzate nella chiave di una elementarità dagli umori simbolici; insieme, sono strutturazioni forti e precise dell’immagine, come per naturale e schiarita architettura. Sono visioni di soglie e di passaggi, una sorta di catalogazione primaria del mondo attraverso le sue forme sorgive. Il segno, ora, torna alla propria primitiva efficacia sintetica, scandisce spazi di filigrana geometrica nei quali si sedimenta un colore definitivamente virato, ora, in toni disagiati; un colore brusco, inasprito, le cui consistenze crude si erigono come spalti all’occhio, a ragionare su una bidimensionalità vagamente araldica e, più, da intonaco.

Tonti davvero scrive, ora, forme e figure. Davvero le ritrova come idee fatte visione, e insieme corpi di pittura, autonomi e autorevoli. Nulla concede a idee pastorizzate d’estetico, interrogandosi piuttosto sulla possibilità che la pittura preserva, nonostante tutto, di pronunciare la sostanza del mondo, e le emozioni d’uno sguardo pensante. 

Sono quadri del tutto inattuali, certo, che non conoscono il proprio ubi consistam nelle onde educate e artificiose del dibattito artistico. Ma proprio per ciò sono quadri veri, che occorre guardare con i propri occhi, senza gli ausili del gusto. E che ci dicono d’un corso in cui l’artista intende inoltrarsi ulteriormente, forte della propria lucida libertà di fare.

Testo da Giorgio Tonti Edizione Libreria Bocca, Milano, 2006.

Nota

La citazione di F. Passoni si legge in Giorgio Tonti, catalogo della mostra, El Harka galleria d’arte, Palermo, 14 – 20 maggio 1966. Di Studio Zero esistono più cataloghi a stampa, ascrivibili agli anni Settanta, senza data. La citazione del 1976 è fatta da Giorgio Tonti, Figurazione 1974 – 75, catalogo della mostra, Arte Visiva, Saronno, s.d. (ma 1976). La citazione di S. Venuti è tratta da Giorgio Tonti, Confini dell’immagine, catalogo della mostra, Sudio D’Ars, Milano, 2002. 

 


Franco Passoni

 

Sarà bene avvertire che Giorgio Tonti è un pittore che lavora isolato, cioè fuori da ogni suggestione della moda e distaccato da consorterie e gruppi velleitari.

Giorgio Tonti è un uomo sereno, dotato di profondi sentimenti umani e morali che sono confacenti al suo bisogno di comunicare, esprimere con sincera onestà, una sua «visione personale» che nel contempo sia anche una disposizione profonda alla comprensione dei fenomeni naturali senza artifici e pregiudizi estetici. E’ dunque un artista serio, coscienzioso, e i suoi dipinti attuali, dopo gi’inizi da un figurativo, pervengono oggi a delle precise conclusioni formali di ordine astratto, raggiungendo uno stabile equilibrio tra gli elementi suggeriti dalla creazione e quelli determinati dalla composizione, tra una raffinata ricerca tecnica di mes[iere pittorico, in senso tradizionale, e la sintesi piasticocromatico.

Nel 1952, l’architetto Gianni Monnet, critico e pittore dei M.A.C., scrisse queste profetiche parole in un numero di «Arte concreta», che oltre a determinare un problema danno un senso preciso anche all’opera di Giorgio Tonti: «... nella nostra epoca l’uomo è subissato, come non lo è stato mai, dalla enorme quantità d’immagini che gli pone sott’occhio la stampa, il cinema, la televisione, e trova il riposo, il raccoglimento della contemplazione artistica solo nella assoluta calma e bellezza degli equilibri della pittura».

L’elaborata trasformazione immaginativa e costante delle percezioni provocate quotidianamente dalla presenza della realtà esistenziale, vengono sensibilizzate e successivamente filtrate e decantate dall’artista, sino a concretare un equilibrio morfo!ogico e spaziale nel quadro. Il timbro dei colori, caldi e vibranti, si affina operativamente in un continuo succedersi delle sensazioni, registrate e impresse sulla tela dal Tonti, sino a creare quell’ordito musicale che, nell’insieme, interseca espressivamente forme e colori.

Le larghe campiture, ricche di vibrazioni luminose e maturate insieme alle «forme», apparentemente semplici, si concatenano piasticamente con una modulazione che è il frutto della sintesi visiva e questo, secondo noi, è il pregio più suasivo della pittura di Giorgio Tonti.

E’ comunque indubbio che l’aspirazione di questo artista sia quella di staccarsi da un rigorismo puramente teorico, per accostarsi più spontaneamente ad una sintesi dei valori della pittura che siano un incontro tra la realtà esteriore e la realtà emotiva interiore, tra una visualità oggettiva e la spinta emozionale soggettiva, caratterizzate da una sobria eleganza.


Silvia Venuti

 

Giorgio Tonti: ambiguità e sintesi

L’immagine nell’opera di Giorgio Tonti appare subito ambigua perché difficilmente interpretabile: è talmente tesa sul limite estremo del riconoscibile che la sua forma può appartenere a simboli diversi. Anche il titolo dell’opera concorre ad accentuare questa ambiguità: ambigua appare la forma, come il titolo, come il concetto che sottende, come la sua interpretazione. La sintesi operata sul confine tra figurazione e astrazione prende corpo in una materia densa, quasi magmatica, di forte impatto fisico e nella dimensione archetipa si palesa la scala, la porta, il ponte, la palizzata, la volta, la tavola. L’artista interroga sé e il mondo con un’ansia di pulizia, d’etica rigorosa: vuol partire da forme primarie, da segni primari, da colori primari. Ogni tentazione estetica, ogni raffinatezza esecutiva fine a se stessa è sentita come disturbante, come tentativo di barare al gioco esistenziale. " Voglio cercare il bello nel brutto" ama dire l’artista che, da forme elementari,raggiunge, con tenacia, una sublimazione dell’immagine senza nulla concedere al compiacimento espressivo.

C’è come una sacralità del primitivo, dell’essenziale sino ad una contrazione dell’energia vitale che diventa luminosità del colore in tensione verso l’assoluto. O tutto o niente: c’è un offrirsi al rischio totale senza mezzi termini. E’ essere in piena verità con una forza di sintesi quasi violenta.

Questa tensione porta alla profondità, a varcare soglie, a salire scale, a uscire dagli schemi, a superare sbarramenti, ad attraversare ponti, a condensare e decifrare i significati della forma rettilinea, circolare, su piani che s’intersecano, s’incontrano, si equilibrano in una costruzione che rinnova la vita con nuovi criteri estetici. Così i segni, che sembrano colare in abbandono intuitivo, strutturano e definiscono con rigore, sigillano, tengono insieme le forme e la materia cromatica che vorrebbe debordare dai contorni e che invece, costretta dal margine, accumula energia catturando ed insieme emanando luminosità.

I colori, accostati con azzardo, proprio nel loro rapportarsi, s’esaltano a vicenda per raggiungere una definizione di totale contrasto. L’artista racconta di sé. In questi lavori è presente, sublimato, il vissuto infantile, la formazione culturale, l’esperienza lavorativa, il percorso esistenziale, il desiderio di costruire certezze, trovare punti fermi con volontà risoluta e severità morale. Così l’espressionismo del segno e del colore, la sintesi della forma, la densità della materia, raggiungono l’equilibrio nell’immagine che comunica a più livelli, con più risonanze.

Il luogo dell’anima di Giorgio Tonti conserva, ancora vive dall’infanzia, le impressioni suscitate dalle foto di un vecchio libro sulle distruzioni del terremoto di Messina: binari contorti, travi spezzate, macerie, dolore. Questo luogo dell’anima assorbe anche la luce mistica delle vetrate ideate e realizzate dall’arte paterna, trattiene quella spinta alla perfezione perseguita attraverso una tecnica dai connotati metafisici e spirituali. La frequentazione dei corsi tenuti da Leonardo Spreafico, Alberto Longoni, dallo scultore Russo alla Scuola del Castello di Milano accresce ed affina la sensibilità critica e creativa, il desiderio di operare nell’arte. Forti contributi culturali giungono dai piani bidimensionali di forte suggestione cromatica di Poliakoff, ma è soprattutto da Kandisky e da Klee che arriva la lezione di perseguire realtà invisibili allo sguardo, la necessità di rivelare l’invisibile.

"L’uomo, l’artista, disegna sulla sabbia ma la consapevolezza del suo effimero lavoro non deve indurlo a rinunciarvi. Deve continuare a rappresentare ciò che non c’è e che non è altrimenti visibile...." sottolinea Giorgio Tonti.* La curiosità costante per tutte le espressioni, dall’art brut al fumetto, comporta continue acquisizioni di materiale culturale da utilizzare e rielaborare con quello spirito libero e visceralmente creativo di cui Picasso fu il più grande esponente. "Il lavoro dell’artista è liberazione dell’irrazionale e di quanto di più incerto e imprevedibile esiste in noi. Va quindi consentito all’artista il più ampio spazio possibile per le sue sperimentazioni." afferma Tonti.* L’interesse per la dinamica gestuale dell’espressionismo astratto è evidente in quel percorso di spoliazione della forma che concorre a determinarne l’ambiguità.

L’esperienza nel campo della grafica ha apportato l’esercizio costante della sintesi, tipica del marchio e della verifica, mediata dalla tecnica, delle modalità di comunicazione. E quante esperienze affettive ed esistenziali ancora affluiscono ad arricchire, evolvere, trasformare!

La via del sottrarre è scelta di valori fondamentali con cui dare significato al flusso vitale.

La via della ricostruzione è volontà di servirsi di questi valori per superare la sofferenza, il caos, l’annichilimento di cui è malata la condizione umana. La via simbolica è la capacità di leggere ed esprimere la spiritualità contenuta nella materia ed acquisirne e trasmetterne la consapevolezza.

La vitalità dell’opera di Giorgio Tonti è epifania di questo cammino in armonia con la legge universale e provvidenziale dei talenti. "Nessuno, del resto, nasce in epoca sbagliata, si può però sbagliare a vivere la propria epoca." conclude Giorgio Tonti.*

 

 * Da: Giorgio Tonti Figurazione 1974-1975. Edizione della Galleria Arte Visiva, Saronno, 1976.